La materia e la trascendenza, il confinamento dell’io e la sua espansione, il sentimento doloroso dell’esistenza e la celebrazione della sua bellezza: il canto di Rainer Maria Rilke è un viaggio mistico, rielabora la condizione umana del divenire, la ricerca della salvezza quando ci si confronta con la propria dimensione più oscura e soprattutto con la morte. L’ultimo approdo resta un mistero, seppur trasceso da quel sentimento divino – incarnato da presenze eteree – che è la via del “mutate mente”, la poesia che si fa preghiera perché “in verità cantare è altro respiro. È un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento”.
Rainer Maria Rilke
(Praga, 1875 – Montreux, 1926) è stato un punto di riferimento per la poesia del Novecento, autore di opere in prosa – il romanzo autobiografico I quaderni di Malte Laurids Brigge
(1910) – e in versi come Vita e canti
(1894), Libro d’ore
(1905), Il libro delle immagini
(1902), Elegie duinesi
(1923) e Sonetti a Orfeo
(1923).