Semplice e oggettiva, simbolica e naturalistica, discorsiva e prosastica: la poesia di Cesare Pavese è un tiepido prolungamento della nostalgia crepuscolare di stampo gozzaniano, è l’incedere fruttuoso e malinconico nei campi e nelle strade cittadine, un dipinto impressionista che rivela la solitudine quale virtuosa privazione del bisogno o come temibile condanna esistenziale. E talvolta il vuoto si riempie di versi lunghi e cadenzati, in una tenera indulgenza verso tutto ciò che è fisicamente presente agli occhi del poeta, traduttore onnisciente e solitario di interstizi sotterranei.
Cesare Pavese
(Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino, 1950) si affermò come poeta con Lavorare stanca
(1936) e ottenne il suo primo successo letterario nel 1941 con Paesi tuoi, dopodiché iniziò a lavorare per la casa editrice Einaudi. Seguirono i Dialoghi con Leucò
(1947), La casa in collina
(1948), La bella estate
(1949) con cui vinse il Premio “Strega”, e La luna e i falò
(1950). È considerato uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento.